Ha suscitato scalpore e, in parte, sconcerto, la sentenza della Corte d’Appello di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia, che ha assolto, perché il fatto non costituisce reato, gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e, per non avere commesso il fatto, l’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
Condannati i mafiosi Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, quest’ultimo con un lieve sconto di pena, prescritte le accuse a Giovanni Brusca.
Tutti costoro erano invece stati condannati in primo grado, ovviamente con pene diverse.
Inevitabili le polemiche e le speculazioni politiche, seguite alla lettura del verdetto.
La destra si è schierata su posizioni garantiste, stigmatizzando un certo accanimento nei confronti di chi, ritenuto per anni responsabile di avere tradito le istituzioni che rappresentava, è stato adesso giudicato innocente.
D’altro canto, la sinistra ha preferito non eccedere nelle esternazioni, scegliendo di aspettare le motivazioni dei giudici e limitandosi alle dichiarazioni di rito del tipo: le sentenze vanno sempre rispettate.
Ora, che le sentenze vadano rispettate è uno dei capisaldi imprescindibili della democrazia e dello Stato di diritto.
Ciò che non è accettabile è, invece, il tentativo di contrapporre, dopo la decisione di un giudice, dei vincitori a dei vinti.
Questo non è ammissibile perché il concetto stesso di giustizia esclude che qualcuno vinca e qualcun altro perda.
L’immagine della giustizia, spesso rappresentata dalla bilancia, suggerisce che essa sia amministrata per ristabilire un equilibrio, precedentemente violato e che non possa, pertanto, pendere da una parte, meno che mai da una parte politica.
Nel caso specifico, va innanzitutto sottolineato che gli assolti non hanno commesso alcun reato, pur riconoscendo loro i fatti ad essi contestati.
La trattativa è stata, dunque, confermata, ma non è stata ritenuta un illecito.
Perché?
Anche noi attendiamo le motivazioni della corte, ma possiamo intuire che, a parere dei giudici, i tre carabinieri hanno agito per scongiurare nuove stragi e, quindi, di fatto, salvare vite umane, dopo gli eccidi del 1992/93.
In altre parole, si è ritenuto che la vita delle persone valga di più della reputazione dello Stato, che indubbiamente si offusca quando esso decide anche solo di interloquire con dei delinquenti.
È giusto tutto questo?
Ci sono precedenti sia nell’uno che nell’altro caso.
Eclatante la vicenda di Aldo Moro, il leader democristiano, sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e ucciso dopo 55 giorni, per il rifiuto categorico del governo di negoziare, nonostante le sollecitazioni del prigioniero, da sempre convinto che la vita umana debba essere salvata a tutti i costi.
Ancora oggi si discute se sia stata presa la decisione migliore, se la fermezza abbia concorso effettivamente alla sconfitta delle B.R. o se quel delitto non abbia, al contrario, creato le premesse della crisi del sistema.
Sul versante opposto si possono ricordare tutte le italiane e tutti gli italiani, volontari e giornalisti, rapiti in Iraq o in Afghanistan, che sono potuti tornare a casa, sani e salvi, grazie alla mediazione dei nostri servizi di sicurezza.
Anche se le autorità non l’hanno mai confermato, non si esclude che ciò sia potuto avvenire a seguito di un negoziato, conclusosi col versamento di danaro alle bande di sequestratori.
Anzi, la morte di Nicola Calipari, l’ufficiale del Sismi ucciso da “fuoco amico” durante la liberazione di Giuliana Sgrena, la giornalista del Manifesto catturata da insorti iracheni nel 2005, fu anche percepita come un’ammonizione degli americani.
Gli USA, infatti, non gradivano la condotta degli italiani, che, a loro parere, pagando un riscatto, foraggiavano i ribelli.
Si potrebbe obiettare che le altre situazioni richiamate non sono state gestite da singoli esponenti delle forze dell’ordine, ma dal governo.
Che il compito precipuo di un carabiniere consista nell’arrestare i criminali anziché prendere impegni con loro. È pure vero, però, che nessuna delle richieste avanzate nel “papello” sarebbe stata accolta ed è proprio questo che ha fatto respingere l’ipotesi di un reato.
Diversa la posizione dei boss, i quali, secondo i giudici, hanno realmente provato a ricattare lo Stato, minacciando di prolungare la linea della tensione, se le istituzioni non si fossero piegate alle loro istanze.
E per questo la loro condanna è stata confermata.
Certamente, se si tiene conto della levatura dei magistrati impegnati in quest’inchiesta e si riflette sulla convenienza che Cosa Nostra trarrebbe dalla loro delegittimazione, viene spontaneo pensare che una sentenza diversa avrebbe invece fatto quadrato attorno a loro, preservandoli dalle critiche e incoraggiandoli ad andare oltre.
E tuttavia, avere appreso che gli ufficiali dell’Arma non hanno violato la legge, accresce la fiducia nelle nostre forze di polizia e ci fa sentire più sicuri.
Senza volere mettere in discussione il diritto di commentare quanto accaduto, esprimendo anche critiche e perplessità, non va comunque dimenticato, anzi va riconosciuto, che i pubblici ministeri hanno svolto un lavoro egregio.
Essi hanno il merito di avere intuito e ricostruito ciò che è realmente successo, il loro contributo allo svelamento della verità è stato importante e decisivo e denota un coraggio e una professionalità non comuni.
Non credo possano esserci dubbi circa la loro volontà di continuare sulla strada della giustizia, potendo contare sulla stima e il sostegno di quanti hanno a cuore la liberazione della nostra terra dalla criminalità organizzata.