Ormai che le competenti autorità hanno di nuovo riconosciuto a tutti il diritto di chiamare i propri figli come si vuole, anche Maria o Giovanni; i bambini sono stati tranquillizzati che Babbo Natale esiste e che non c’è mai stata alcuna speculazione pubblicitaria attorno a lui; le controversie dei giorni passati si sono definitivamente dissipate e sta per arrivare quella che un tempo veniva definita la festa più bella dell’anno.
E che da qualche tempo è, invece, divenuta tra le più divisive, per i ripetuti tentativi di cambiarne l’originaria identità cristiana.
In realtà, che essa non fosse più foriera di pace come una volta, l’aveva già capito il premio Nobel Salvatore Quasimodo che, nel 1952, scrisse dei celebri versi dedicati al presepe:
"Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?"
E tuttavia, se il Natale conservasse qualcosa della sua antica identità, forse potrebbe aiutarci a rivalutare tre importanti categorie antropologiche, il desiderio, l’attesa e l’accoglienza, la cui mancanza, spiegano gli esperti, è causa di quella sorta di perenne insoddisfazione che, ahimè, caratterizza la nostra epoca e investe maggiormente i più giovani. I quali, secondo Massimo Recalcati, sono più spesso esposti a disturbi del comportamento (aggressività, dipendenze, anoressia e bulimia), per la loro crescente difficoltà a desiderare, causata da imperdonabili storture educative di noi genitori innanzitutto e, in secondo luogo, della scuola, che non ha sempre associato il premio al merito e dunque il risultato all’impegno.
Il Natale può, allora, svolgere una funzione sociale e - perché no? - anche pedagogica.
La vicenda, per alcuni il mito, di un bimbo che nasce, creduto il Redentore e, per questo, predetto dai profeti, riuscirebbe, infatti, a riaccendere nelle nostre vite il fremito del desiderio, l’emozione dell’attesa, la gioia dell’accoglienza.
E quando il desiderio trascende la dimensione individuale e ne assume una comunitaria, esso diviene speranza.
Come quella di essere liberati dal virus, che il mondo nutre ormai da due anni e che non si è ancora pienamente realizzata.
Mentre ci accingiamo a celebrare il secondo Natale al tempo del covid, la comparsa dell’ultima variante ha determinato un’altra impennata di contagi e rimesso in discussione le poche certezze, che gli scienziati avevano faticosamente raggiunto nei mesi scorsi.
Dopo settimane di relativa e apparente normalità, durante le quali eravamo stati pure additati quali modelli organizzativi da imitare, adesso si affastellano i dubbi su come gestire le imminenti festività, se cioè tornare a restrizioni più severe o difendere, magari riadattandole alle nuove circostanze, le aperture fin qui ottenute.
È chiaro che, con uno scenario del genere, possono vacillare le speranze di chi pensava che il peggio fosse ormai alle spalle e mancasse poco all’uscita dall’emergenza.
Ancora una volta, il Natale è capace di offrire a tutti un barlume di fiducia e ottimismo, come è avvenuto in passato, in situazioni più difficili e drammatiche dell’attuale.
In una prigione di Treviri, dove scontava il suo rifiuto al nazismo, il filosofo ateo Jean Paul Sartre, nel 1940, scrisse un’opera teatrale, Bariona, ou le Fils du tonnerre, che fu inscenata la vigilia di Natale di quell’anno.
In essa si narra dapprima la delusione di un capo ebreo che, accorso a Betlemme per incontrare il Messia, lo trova in fasce all’interno di una mangiatoia.
Successivamente, egli è avvolto dall’atmosfera del presepe e, in particolare, dallo stupore impresso sul volto di Maria.
Scrive il grande pensatore francese: “Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive”.
Da questo racconto, scritto “per cristiani e non credenti”, impariamo che la dignità dell’uomo, estremo sostegno negli eventi più avversi, risiede anche nel mistero della maternità, nella tenerezza di un abbraccio o di uno sguardo, nella speranza suscitata da un bambino che, per la prima volta, vede la luce.