
Da qualche tempo assistiamo a episodi di violenza, compiuti da adolescenti ai danni di loro coetanei, spesso indifesi o in condizione di fragilità, ma anche di donne, stranieri, anziani e perfino di qualche disabile.
L’aggressione è quasi sempre ripresa da un telefonino, il cui video viene poi diffuso nei social.
Nelle ultime settimane questo fenomeno è cresciuto a dismisura e sui quotidiani è comparso un vero e proprio bollettino di guerra.
Da Catania a Palermo, da Milano a Riccione, da Monza a Merano, le baby gang in azione mettono in seria difficoltà le forze dell’ordine, che parlano ormai di “allarme sociale”.
Ora, se vogliamo seriamente studiare il problema, non possiamo continuare a nasconderci dietro un dito e non riconoscere che tutti coloro che negli ultimi vent’anni almeno, abbiamo avuto delle responsabilità nell’ambito dell’educazione (scuola, famiglia, parrocchia, associazione sportiva, centro culturale, mass media) abbiamo clamorosamente fallito.
Abbiamo sbagliato tutte le volte in cui non abbiamo saputo dire no ai nostri figli, accondiscendendo ad ogni loro richiesta, anche quando andava contro il buon senso, superava le nostre possibilità economiche o esprimeva in maniera evidente non un bisogno effettivo, ma un capriccio inaccettabile.
Avremmo dovuto lasciarli piangere più spesso, nella culla se strillavano per essere presi in braccio, quando a nove anni ci hanno chiesto lo smartphone e a dieci la playstation.
È stato un errore incitarli a rompere le gambe all’avversario durante una gara sportiva fra compagni.
Non dovevamo permettere ai loro coetanei di darci del tu e chiamarci per nome, avremmo potuto prevedere che dopo ci avrebbero trattati da pari e, prima o poi, uno di essi ci avrebbe deriso, mandato a quel paese o alzato le mani.
Abbiamo sbagliato a comprare un motore o una microcar per non far pesare gli effetti di una bocciatura.
Avremmo, al contrario, dovuto spiegare che la vita, come insegna Orazio, non ha mai dato nulla ai mortali senza una grande fatica.
Il giorno in cui ci raccontarono che un docente li aveva apostrofati come maleducati, ci saremmo dovuti chiedere se per caso non avesse ragione lui, anziché denunciarlo.
E quando i nostri figli ci chiamarono per accusare un insegnante, che aveva scritto loro una nota disciplinare, non dovevamo precipitarci a scuola per recriminare contro quel professore, ma attenderli a casa e pretendere una spiegazione.
La volta in cui, al ritorno dal viaggio d’istruzione, ci riferirono che si erano ubriacati, invece di crederli presi di mira, li avremmo dovuti seguire di più e farci raccontare la verità.
Il sabato notte, non dovevamo andare a dormire, sarebbe stato meglio farci trovare ancora in piedi a casa, anche all’alba, per annusare i vestiti e osservare il nitore degli occhi e della mente.
Non abbiamo compreso che dietro la loro irruenza e aggressività non si nascondeva un desiderio di libertà (giacché ne avevano avuto fin troppa), ma un drammatico bisogno di regole, di limiti, di argini, che non avevamo saputo, o voluto, dare.
Alle rare richieste di parlarci, avremmo dovuto trascurare qualunque altro impegno ed ascoltarli immediatamente, anche dopo una giornata lunga e faticosa, e non rinviare il colloquio ad un momento, che non si sarebbe mai più ripresentato.
La scuola non doveva diventare un’azienda diretta da manager, ma un’agenzia educativa finalizzata alla formazione umana dei ragazzi. Laddove per decenni “formazione” ed “educazione” sono state parole bandite dal lessico scolastico, salvo ricomparire dietro sigle, talora impronunciabili, come pof, ptof, pei, cfp.
Una formazione non ideologica, ben inteso, ma antropologica, cioè in grado di far scoprire ad ogni alunno, attraverso lo studio delle discipline, la sua vera “forma”, che vuol dire l’umanità, per realizzarla pienamente.
Lo sport non avrebbe dovuto perdere quella dimensione ludica e di sana competizione in cui risiede la sua efficacia educativa, per trasformarsi in un business scandaloso, che abbacina i giovani con contratti pantagruelici e propone come modelli giocatori, che sputano in faccia all’avversario per ricambiarlo di un fallo subito o rivolgono parole indegne all’arbitro che li ha espulsi.
Se certi preti si fossero accostati ai giovani con la semplicità del vangelo, non indossando abiti azzimati e griffati, ma emanando anch’essi “l’odore delle pecore” loro affidate (come chiede il Papa), li avrebbero meglio accompagnati nella ricerca di senso.
I palinsesti televisivi dovevano mantenersi rispettosi della sensibilità dei più piccoli, proponendo trasmissioni istruttive e cartoni intelligenti, nei quali fosse sempre chiara la distinzione tra buoni e cattivi. Si sarebbero dovuto relegare i programmi insulsi o inadeguati nelle fasce interdette ai minori e non mandarli in onda a qualunque ora, con un bollino giallo o rosso di cui nessuno si cura.
Da educatore non posso che continuare a credere e a sperare nel recupero di ogni ragazzo, ma se non si matura e mette in atto una reale cultura della prevenzione, fra non molto ci sentiremo tutti “una forza del passato” e, come nella celebre poesia di Pasolini, potremo dire: “E io, feto adulto, mi aggiro/più moderno di ogni moderno/a cercare fratelli che non sono più”.