"Siamo sconvolti e amareggiati dalla disinvoltura con la quale 23 soggetti, tra impiegati dell’Istituto Bellini ed imprenditori, hanno impunemente rubato per dieci anni soldi destinati alla cultura, alla musica, alla crescita dei giovani nella nostra città" Così Cittàinsieme interviene sulla vicenda dell'Istituto Bellini che ha portato all'arresto di ben 23 persone, oltre ad altri 15 indagati. "14 milioni di euro spesi in gioielli, viaggi e crociere da parte di persone che hanno sfruttato per anni -prosegue la nota di Cittàinsieme- del tutto indisturbati, una fitta rete di relazioni e di silenzi con il solo scopo di poter rubare meglio e di più. Così la nostra città balza, in tutta Italia, agli onori della cronaca e non certamente per le sue bellezze e il suo decoro ma per la disonestà di chi amministra il pubblico denaro". Quindi Cittàinsieme rivolge un plauso a Magistratura e Guardia di Finanza per "l’eccellente lavoro sin qui svolto" esortandoli a continuare. Intanto, dalle carte, vengono alla luce particolari sconvolgenti. Agata Carrubba, ex ragioniere generale dell'Istituto e a capo, con il marito Fabio Marco, dell'organizzazione criminale, era lei ad avare il potere di firma sui soldi in uscita, oltre a tutti i bonifici e ogni altro possibile espediente, prelevava ogni mese una specie di stipendio extra di 1.000 euro dal Monte Paschi di Siena, e altri soldi, con la stessa regolarità, anche dalla Banca Popolare di Ragusa. L'intera somma rubata ammonta a oltre 5 milioni di euro. Le tre donne principalmente implicate nella torbida ruberia, Carrubba, Vita Marina Motta (che avrebbe percepito somme per quasi 2,8 milioni di euro) e Lea Marino (quasi 2,6 milioni), si erano anche aumentate lo stipendio rispetto alle quote tabellari previste, naturalmente senza figurare. In più, tutti coloro che erano stati licenziati (Agata Carrubba, Vita Marina Motta, Lea Marino, Paolo Di Costa e Roberto Russo) a seguito delle istruttorie interne che avevano cominciato a scoperchiare la pentola, a maggio del 2016, avevano impugnato il licenziamento dinnanzi al giudice del lavoro, una circostanza che nell'ordinanza viene stigmatizzata come "spregiudicatezza".