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Verso la conclusione della stagione teatrale catanese

25-05-2018 12:24

Franco La Magna

The post,

Verso la conclusione della stagione teatrale catanese

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Tra il “Brancati”, il “Piccolo” e lo “Stabile”, si avvia verso la conclusione la ricca stagione teatrale catanese con tre spettacoli profondamente diversi tra loro. In scena nostalgia, comicità e dramma



Addio vecchio Sangiorgi. Un tuffo in mondo scomparso, il mitico “avanspettacolo”, ormai solo sbiadita sopravvivenza della memoria di ultra ottuagenari o “incandescente” materia di studio per storici del teatro. Monumento della Catania della Belle Epoque, in un immaginario “Sangiorgi” rivivono in sedicesimi i fasti di quel tempo sprofondato, riesumati da uno spettacolo brioso e colorato, “Addio vecchio Sangiorgi”, che la brillante regia di Gianni Salvo restituisce come un mosaico, un puzzle di vecchie gag, di sketch demenziali, di ballerine piroettanti. Accompagnati da un’orchestrina diretta da uno dei protagonisti d’un tempo più recente, Nino Lombardo, pianista doc della Catania degli anni ruggenti ecco succedersi sul palcoscenico l’immarcescibile Tuccio Musumeci (decano dell’attorialità catanese e sodale di Pippo Baudo, spettatore e testimonio presente alla prima) e ancora Dodo Gagliarde, Angelo Tosto, Daniela Russello, Enrico Manna e Claudio Musumeci. Una sarabanda di vecchi numeri, monologhi, duetti, terzetti, che furono cavalli di battaglia degli innumerevoli artisti passati sul glorioso palcoscenico creato (e gestito) proprio all’inizio del “secolo breve” da Mario Sangiorgi, storico fondatore della multi struttura (albergo, sala di pattinaggio, ristorante, cafè-concerto) passata alla sua morte al fratello Concetto (1916) e infine al figlio Guglielmo, singolare ed eclettico personaggio della “Catania bene” che ne ha accompagnato tutte le trasformazioni (da teatro a cinema, a cinema a “luci rosse”) fino alla renovatio degli anni 2000 avvenuta con l’acquisto del Teatro Massimo “Bellini”.


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Morir di Fama

di e con Evelin Famà. Un decennale da festeggiare con il nuovo allestimento al Piccolo Teatro della Città. Dieci candeline da spegnere in allegria con l’adrenalinica, vulcanica e spumeggiante Evelin Famà, stimata, versatile attrice dei molti palcoscenici catanesi che non manca l’anniversario con questo “dodecafonico”, esilarante monologo in cui l’ossessiva, ingombrante presenza della famiglia (madre, zia, cugina) e di taluni “mostri sacri” del teatro, diventano spunto di scoppiettante dileggio, di verbose macchiette dalla mitragliante e fluviale parlata sicula, di fugaci elucubrazioni sul teatro. L’attrice in crisi d’identità, protagonista della piecé, racconta (parole della stessa autrice-attrice)


“… con una risata ed una buona dose di autoironia, le origini dello sfacelo della società dello spettacolo, che oggi sta vivendo un periodo di profonda crisi economica, aggravata da abbondante superficialità ed approssimazione…”.

Sicché lo spumeggiante monologo si fa veicolo apotropaico d’esorcismo salvifico contro l’imbarbarimento televisivo e la frequentazione “abusiva” d’una professione continuamente mortificata da una pletora d’artisti raccogliticci esaltati da invadenti e frastornanti totem mediali. Regia di Carlo Ferreri.


Un momento difficile

di Furio Bordon. Uno psicodramma surreale in cui tutti noi esseri umani siamo coinvolti avvinghiati nell’inconpiutezza della nostra vita, dei rapporti spezzati, sfilacciati, mai chiariti con i nostri genitori. Una dolorosa incomunicabilità che nasconde il desiderio di sentire l’impossibile parola definitiva, che tutto spieghi pacificandoci. Percorso da segrete vibrazioni edipiche l’anziano protagonista di “Un momento difficile” (terzo e conclusivo lavoro teatrale d’una trilogia delle “età indifese”, scritta dal drammaturgo triestino Furio Bordon), alle prese con la demenza senile della vecchia madre, “incontra” nella camera da letto, appestata dal piscio e dai peti della donna ormai morente, i fantasmi dei genitori giovani, che inevitabilmente lo riportano all’infinita tristezza e alle (poche) gioie dell’infanzia. In una drammatica seduta (auto)psicanalitica l’uomo ripercorre le frustrazioni e le angosce della sua giovanissima età, scaturite da una madre superficiale, quasi anaffettiva, annoiata e infastidita dalla sua presenza di bimbo che da lei non vorrebbe mai staccarsene, forse addirittura fedifraga e che pure egli continua disperatamente ad amare, tentando di scandagliarne i sentimenti, di comprendere l’incomprensibile. E nel serrato dialogo con queste decisive presenze fantasmatiche, qua e la nell’emergere d’una tenerezza rattenuta sembra trovarsi la ragione d’un amore totale, sepolto e dissotterrato ma subito sopito dalla baldanza delle “due madri” che continuano a fustigare il figlio annientato da tanto disprezzo, maltrattandolo, apostrofandolo con epiteti ingiuriosi (“mezza calzetta” continua a ripetere la vecchia madre). Un cimitero d’ombre con cui tutti continuiamo a confrontarci nell’ambigua condizione di figli “non più figli”. Sicché all’inevitabile prevalere della commozione umana che talvolta tende a sovraneggiare su quella estetica, la straordinaria prova attoriale dei quattro personaggi ne compensa i due estremi, anzi decisamente favorendo la seconda: Massimo Dapporto (il figlio), indifeso, implorante e quasi piangente nei mezzi toni, straziante nelle accuse mosse alla madre, sorprendente negli improvvisi scatti irosi; Ileana Rigano (la madre allettata per quasi tutta la durata della rappresentazione), mobilissima nelle modalità vocali (supplichevole, imperiosa, grottesca, affettuosa, tragicamente comica); Debora Bernardi (la madre giovane) sprezzante nella strenua difesa del suo passato, mostra punte taglienti di cattiveria ma poi suadente si lascia vincere da inattese tenerezze; Francesco Foti (il padre) pacato elemento frenante nel serrato scontro-confronto madre-figlio. Giovanni Anfuso, regista emotivamente coinvolto, ha colto del dramma di Burlon i significati più reconditi, quelli dell’assenza-presenza, del tentativo di comunione, della disperata ricerca d’una verità assoluta, definitiva, immutabile. Una direzione attoriale scaturita da un profondo studio psicologico dei quattro protagonisti che alla fine si abbandonano danzando in una sorta di grottesca pantomima, bizzarro preludio dell’addio definitivo. Una “lunga seduta catartica - scrive Anfuso - per medicare le ferite dell’anima”. Ma si tratta davvero di guarigione o non è ancora questo un ultimo sussulto dell’incomprensione e dell’incomunicabilità che affligge e rende drammaticamente soli tutti gli esseri umani?


 


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