

Il dirottamento, da parte delle autorità bielorusse, dell’aereo della compagnia Ryanair, diretto da Atene a Vilnius, è un fatto di inaudita gravità, per molteplici ragioni.
Innanzitutto perché sono stati usati metodi terroristici da uno Stato in cui il potere, dal 1996, è ininterrottamente esercitato dal presidente Aljaksandr Lukašėnka, grazie a delle modifiche costituzionali, approvate in spregio alle più elementari regole democratiche.
Definirlo un dittatore non dovrebbe, pertanto, suscitare le reazioni di sdegno avute, poco tempo fa, dall’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan.
Sarebbe stato il presidente in persona ad ordinare ad un caccia militare di accostare l’aereo, domenica scorsa, costringendolo a deviare la rotta su Minsk dove, poco dopo, è atterrato.
L’intervento è stato giustificato da una spiegazione, successivamente rivelatasi infondata, che cioè Hamas avesse organizzato un’esplosione in volo su Vilnius.
L’aeromobile è ripartito e giunto nella capitale lituana con sei ore di ritardo, tra l’incredulità dei passeggeri trovatisi, loro malgrado, al centro di un intrigo internazionale.
Alcuni hanno pensato, dapprima, di stare precipitando, poi di essere stati sequestrati e solo a vicenda conclusa hanno tutti compreso cosa fosse realmente accaduto.
È evidente a ciascuno che azioni del genere mettono a rischio la sicurezza di chi viaggia e non possono essere tollerate.
Tuttavia, sono dovute passare delle ore, prima che la dirigenza di Ryanair esprimesse una formale condanna, definendo quanto successo “un atto di pirateria aerea”.

Ma il fatto più deprecabile e sconcertante è il vero motivo per cui è avvenuto il dirottamento: l’arresto del giornalista dissidente Roman Protasevič e della sua compagna Sofia Sapega.
Nonostante i suoi ventisei anni, Protasevič ha un vissuto molto intenso e movimentato.
Sin dal 2010 è uno dei più temuti oppositori di Lukašėnka, attraverso un impegno politico manifestato sui social.
Per questo ha subito diversi procedimenti penali, è stato espulso dalla facoltà di giornalismo dell’Università statale e, nel 2019, si è trasferito in Polonia, dove ha chiesto asilo politico.
Durante le ultime elezioni presidenziali ha offerto un’informazione libera, mediante il canale Telegram “Nexta”, fondato da Stepan Putilo, ventitreenne blogger bielorusso, anch’egli emigrato in Polonia, per sfuggire alla repressione del regime.
“Nexta”, che in bielorusso vuol dire “qualcuno”, afferma coraggiosamente il desiderio di essere e di esserci, a dispetto di chi, invece, vorrebbe eliminare, anche fisicamente, chi non la pensa come lui.
Questo canale conta ormai milioni di iscritti, riceve trecento messaggi al minuto ed è ritenuto la prima voce indipendente del Paese.
Sia Protasevič che Putilo hanno come riferimento Alexi Navalny, l’attivista russo, blogger e oppositore di Vladimir Putin, di cui Lukašėnka è da tempo fedele alleato, che attualmente versa in gravi condizioni di salute, per un avvelenamento subito la scorsa estate.
Il 25 maggio, due giorni dopo il dirottamento, Protasevič è comparso in un video, con evidenti segni di maltrattamento sul volto, intento a rassicurare sul suo stato fisico e a confessare “di organizzare disordini di massa a Minsk”.
La comunità internazionale non ha creduto alla sincerità delle sue dichiarazioni, evidentemente estorte dagli aguzzini, e ha stigmatizzato tutta l’operazione, definita da John Biden “un oltraggioso dirottamento aereo”.
Il giorno dopo, anche la fidanzata è stata costretta ad una “confessione” dinanzi ad una telecamera.
Dal canto suo, il presidente bielorusso ha negato di sapere chi ci fosse a bordo dell’aereo dirottato.
L’Unione Europea ha pronte sanzioni contro Lukašėnka e ha chiuso il suo spazio aereo alla Bielorussia.
Quest’increscioso avvenimento ripropone il tema delicato della libertà di stampa, diritto intangibile delle democrazie, ancora negato o bistrattato in molti Stati nel mondo.
Secondo l’ultima classifica redatta da “Giornalisti senza frontiere”, la percentuale di Paesi in cui la situazione è definita buona è scesa, negli ultimi dodici mesi, dal 6,9% all’1%, mentre quella in cui si ritiene gravissima, difficile o problematica è complessivamente del 73%.
Fa riflettere la posizione dell’Italia, al 41° posto, dopo Ghana e Burkina Faso; ma non sorprende, se ben trenta giornalisti, dalla fine dell’ultima guerra, hanno perso la vita e oggi diciannove vivono sotto scorta.
Il Ministero dell’Interno ha indicato alcune regioni in cui la situazione è particolarmente a rischio: Lazio, Campania (in particolare la provincia di Caserta), Sicilia, Calabria e Lombardia.
Eccezion fatta per quest’ultima, le altre si trovano nel centro-sud, segno che la minaccia più alta proviene dalla criminalità organizzata.
Ultimamente anche i social sono diventati, purtroppo, uno spazio dal quale rivolgere pesanti avvertimenti alle testate giornalistiche e a chi vi lavora.
Ma perché la stampa può destare così tanta preoccupazione da volerla privare della sua libertà d’espressione? Perché nel mondo e, come si è detto, pure nel nostro Paese, c’è chi ha paura della verità, nella cui diffusione consiste la missione dei giornalisti seri e onesti.
Tra libertà e verità intercorre una reciprocità tale per cui non è libero chi non annuncia la verità e non può annunciare la verità chi non è, a sua volta, libero.
Libero, innanzitutto, da se stesso, dai pregiudizi che a volte si annidano nell’educazione ricevuta, nelle convinzioni ideologiche o religiose, maturate nel tempo.
Ma liberi anche da qualsiasi coercizione provenga dall’esterno: di natura economica, politica o, appunto, mafiosa.
Quella della libertà di stampa è una questione che non può essere trascurata, ci proponiamo, quindi, di tornarci e di approfondirla ulteriormente.
Nel frattempo può essere utile e funzionale a prolungare la riflessione sull’argomento, richiamare un passo di "Sostiene Pereira", il romanzo di Antonio Tabucchi del 1994, ambientato a Lisbona, durante la dittatura salazarista:
“Cominciarono a mangiare in silenzio, poi, a un certo punto, Pereira chiese a Silva cosa ne pensava di tutto questo.
Tutto questo cosa?, chiese Silva.
Tutto, disse Pereira, quello che sta succedendo in Europa.
Oh non ti preoccupare, replicò Silva, qui non siamo in Europa, siamo in Portogallo.
Pereira sostiene di avere insistito: sì, aggiunse, ma tu leggi i giornali e ascolti la radio, lo sai cosa sta succedendo in Germania e in Italia, sono fanatici, vogliono mettere il mondo a ferro e fuoco.
Non ti preoccupare, rispose Silva, sono lontani.
D’accordo, riprese Pereira, ma la Spagna, non è lontana, è a due passi, e tu sai cosa succede in Spagna, è una carneficina, eppure c’era un governo costituzionale, tutto per colpa di un generale bigotto.
Anche la Spagna è lontana disse Silva, noi siamo in Portogallo.
Sarà, disse Pereira, ma anche qui le cose non vanno bene, la polizia la fa da padrona ammazza la gente, ci sono perquisizioni, censure, questo è uno stato autoritario, la gente non conta niente, l’opinione pubblica non conta niente”.