Quando nel 1492 Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia espulsero gli Ebrei dai territori della Spagna, in alcune comunità del Regno furono edificate chiese e costruiti monumenti, per ringraziare il Cielo di questa decisione.
Contestualizzando il provvedimento, infatti, si riteneva che esso avesse bonificato la società dagli usurai che l’affliggevano.
Nel resto d’Europa si preferì, invece, costringere gli Ebrei a vivere all’interno di quartieri, chiamati “ghetti”, dal nome dell’isola di Venezia, in cui essi furono relegati all’inizio del XVI secolo.
Quando il capitano Alfred Dreyfus, ufficiale dell’esercito francese di origine ebraica, fu ingiustamente condannato nel 1894, con l’accusa di essere una spia a servizio della Prussia, si contestualizzò l’accaduto dicendo che gli Ebrei erano costituzionalmente dei fedifraghi, poiché uno di loro aveva tradito il Messia.
Quando tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in Russia dilagarono i pogrom, che poi si sarebbero diffusi nel centro e nel nord del continente, si contestualizzarono quei massacri antisemiti, pubblicando i Protocolli dei Savi di Sion, una fake di quel periodo, che parlava di una congiura ebraica mondiale.
Quando entrarono in vigore le leggi razziali, prima in Germania e poi in Italia, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, furono contestualizzate da una propaganda antisemita, che agiva su più fronti: parlava di un complotto finanziario planetario, ordito dai magnati ebrei del capitale e di una rivoluzione proletaria mondiale ispirata da un ebreo di Treviri, che si chiamava Karl Marx.
Il 27 gennaio 1945 l’esercito sovietico varcò i cancelli di Auschwitz e da allora, ogni anno, si celebra la Giornata della memoria, che nel 2000 è stata approvata dal parlamento italiano e nel 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Ero convinto che, proprio per questo, qualunque altra sciagura si fosse abbattuta sul popolo ebreo, nessuno avrebbe più osato contestualizzarla.
Anche perché, nella fattispecie, contestualizzare significa inserirla in un contesto storico per trovarne una giustificazione che, ipocritamente, verrebbe chiamata comprensione.
E invece mi sono sbagliato.
Dopo l’attacco proditorio subito da Israele lo scorso 7 ottobre, che ha causato più di mille morti civili, di cui una cinquantina bambini decapitati, circa duecento rapiti, compresi anziani, disabili sulla sedia a rotelle, malati di Alzheimer, parkinsoniani, donne e bambini, anziché condannare in maniera ferma, convinta e unanime l’accaduto, da più parti si cerca, ancora una volta, di “contestualizzare” l’aggressione, per “comprenderne” le ragioni storiche e politiche dalle quali è scaturita.
Tradotto significa che il vero responsabile di quest’eccidio efferato e spietato, crudele e disumano, turpe e vile deve considerarsi Israele.
Ora, intendiamoci, che la politica di certi governi israeliani sia pure stata fortemente lesiva della dignità umana, accanendosi con spietatezza sui Palestinesi e non risparmiando donne e bambini, è innegabile.
Che talune strategie militari siano state attuate con spregiudicata ferocia, preoccupandosi più dell’obiettivo da centrare che delle conseguenze collaterali, è indiscutibile.
Che l’Occidente abbia troppo spesso dichiarato guerra a nemici da lui stesso creati e armati, è indubbio.
Ma crediamo davvero che in questo momento sia più utile contestualizzare che condannare?
Richiamare Israele alle sue responsabilità piuttosto che esprimergli la piena e incondizionata solidarietà?
Trovare affannosamente un equilibrio tra le parti, mettendo sulla bilancia i misfatti di entrambi, invece di inorridire per il grado di abiezione raggiunto da Hamas in questa circostanza?
Se poi si vuole ricorrere per forza alla storia, chiediamoci se le atrocità israeliane nascano dalla volontà di annientare il nemico o dalla necessità di difendersi da esso.
Gaza, ad esempio, è da anni assediata, da quando il suo territorio è stato attorniato da un muro costruito dal premier israeliano Sharon.
Decisione discutibile, contestata a vari livelli, che ha privato milioni di esseri umani della libertà di movimento.
Essa fu, però, presa in un periodo in cui kamikaze palestinesi si infiltravano nelle città israeliane, facendosi saltare in aria in luoghi affollati, come autobus, discoteche, ristoranti.
Gaza e Cisgiordania sono state occupate dall’esercito di Gerusalemme e successivamente colonizzate, dopo la Guerra dei sei giorni.
E tuttavia fu proprio uno dei protagonisti militari di quel conflitto, Yitzhak Rabin, divenuto primo ministro, a sottoscrivere gli accordi di Oslo.
E qualche anno dopo fu lo stesso Sharon, il famigerato e imperdonabile generale di Sabra e Chatila, a ordinarne lo sgombero.
L’Egitto fu per anni l’acerrimo nemico di Israele, ma quando il presidente egiziano Sadat fu disposto a riconoscerlo, si giunse agli accordi di Camp David con cui Il Cairo si riappropriò della penisola del Sinai, perduta nella Guerra dei sei giorni.
È evidente che Israele, quando ha potuto, ha contribuito a costruire la pace, dialogando, negoziando, rinunciando a qualcosa e, in qualche caso, pagando un prezzo salato, come quando Rabin, dopo avere ricevuto il Nobel per la pace, fu assassinato da un ebreo fanatico.
Le notizie che arrivano dal Medio Oriente oggi fanno presagire una imminente azione di terra israeliana, che seminerà ancora terrore e morte e che, realisticamente, potrebbe determinare l’uccisione di tutti gli ostaggi, catturati da Hamas.
Invece di interrogarsi su chi sono i buoni e i cattivi, l’Occidente si adoperi con tutto il peso politico, economico e militare che si ritrova, per salvare quante più vite umane è possibile, per scongiurare l’ennesimo bagno di sangue, che inevitabilmente ne richiamerebbe tantissimi altri, per assicurare a due popoli martoriati una patria sicura e una pace giusta e legittima.