Ieri pomeriggio è stato presentato nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, il libro di Maurizio de Lucia e Salvo Palazzolo “La cattura”, edito da Feltrinelli.
Il luogo è particolarmente significativo e suggestivo perché è lo stesso in cui, il 25 giugno 1992, Paolo Borsellino tenne il suo ultimo discorso in pubblico, prima di essere trucidato, assieme a cinque agenti della sua scorta, il successivo 19 luglio.
All’evento sono intervenuti, dialogando con gli autori, il Procuratore Generale Lia Sava e il noto giornalista Umberto Lucentini.
Il volume ripercorre doviziosamente le fasi che hanno preceduto e seguito l’arresto di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano catturato dai Carabinieri il 16 gennaio scorso, dopo una latitanza durata tre decenni.
De Lucia è il Procuratore capo di Palermo che con l’aggiunto Paolo Guido, ha coordinato la brillante operazione.
Salvo Palazzolo è un coraggioso inviato speciale di Repubblica, che da oltre trent’anni segue personalmente le vicende di Cosa nostra, narrando le più importanti e scottanti inchieste giudiziarie della città e dell’isola.
Con questa pubblicazione i due autori rendono un ottimo servizio alla società civile e, con mezzi diversi da quelli repressivi, ma non meno efficaci, proseguono il loro impegno contro la criminalità organizzata, raccontandola, descrivendone i profondi cambiamenti verificatisi negli ultimi tempi e soprattutto evidenziandone i limiti e gli inequivocabili segnali di crisi in cui essa versa.
Già Paolo Borsellino aveva esortato a parlare di mafia, “alla radio, in televisione, nei giornali, però parlatene”.
Egli sperava ci si potesse finalmente emancipare da un silenzio assordante e storicamente colpevole di avere coperto i misfatti dei cosiddetti uomini d’onore, fino a garantirne a lungo l’impunità.
Adesso, con un linguaggio perspicuo e coinvolgente, de Lucia e Palazzolo alternano i capitoli dedicati alla lunga caccia al latitante con quelli incentrati sulla storia più recente di Cosa nostra.
Il lavoro paziente e scientifico condotto dagli investigatori per stanare l’ultimo boss stragista, si intreccia così con un interessante aggiornamento sui loschi affari della mafia, dai quali ricava guadagni pantagruelici.
Viene chiarito al lettore il ruolo svolto da Messina Denaro nell’organizzazione; i suoi rapporti devoti e interessati con i capi storici, quali Riina e Provenzano; il coinvolgimento nelle stragi del ’92 e del ’93; il reticolo di protettori di cui egli ha a lungo goduto; gli appoggi ricevuti da alcuni suoi familiari e in particolare dalle sorelle; i contatti con uomini politici ambigui e compiacenti; il giro di amanti che lo attorniavano; il suo rifiuto di collaborare con la giustizia; la duttilità criminale con cui riusciva sempre ad adattarsi alle varie situazioni profittevoli che gli si presentavano.
Da questo punto di vista egli ha impersonato il volto più evoluto di Cosa nostra, che cura gli investimenti andando in giro per l’Italia, che ama il lusso e non disdegna la tecnologia.
Che si distacca dalla falsa religiosità dei padrini di un tempo e non nasconde il proprio ateismo, raggiunto più che per convinzione ideologica o razionale, per presunzione, per una sorta di delirio di onnipotenza con cui non riesce a credere in nessun altro al di fuori di sé.
Che stigmatizza la beatificazione di padre Puglisi, voluta da una Chiesa “politicizzata, che anziché insegnare il perdono, scomunica e condanna”.
Che legge e cita Amado, Negri, Garcia Marquez, Cechov e arriva ad affermare che la cultura è sempre lo strumento migliore con cui affrontare la vita.
Ma che non rinuncia ai sistemi tradizionali e rudimentali di comunicazione, i pizzini, magari scritti al computer e ritenuti pur sempre i più sicuri ed efficaci.
Che accusa lo Stato di avere spesso vessato i Siciliani e si rammarica di una rivoluzione non realizzata, quando i tempi e le risorse lo avrebbero consentito.
Ciò che colpisce maggiormente è, però, il realismo col quale riconosce il periodo difficile che sta attraversando, ammettendo addirittura, in più di un’occasione, di avere perso e di non disporre più degli appoggi politici di un tempo.
Lo asserisce in una lunga lettera ad un ex sindaco: “Solo la storia la scrive chi vince e loro hanno vinto [...] C’è solo da prendere atto della sconfitta restando nella propria dignità [...] Ce l’abbiamo fatta con l’alluvione e la pestilenza, con la legge non s’è potuto, no: abbiamo perso”.
Colpisce l’uso fuorviante della parola “dignità”, cui altri mafiosi erano ricorsi in passato, basti pensare a Michele Greco in talune sue esternazioni al maxi processo.
Di estremo interesse è il capitolo sulla borghesia mafiosa, espressione che il Procuratore capo usò pure all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo, pochi giorni dopo la cattura di Messina Denaro.
Si tratta di quella porzione di società, formata prevalentemente da liberi professionisti, imprenditori e dirigenti pubblici, alcuni dei quali iscritti a logge massoniche, che fiancheggia la mafia, venendo a patti con essa in una logica di mutua agevolazione.
Zone grigie molto pericolose, la cui subcultura riesce a insinuarsi dappertutto, creando situazioni di oggettiva illegalità, velata di ipocrisia e perbenismo.
In qualche caso il coinvolgimento è diretto e si preferisce, o si esige, l’affiliazione personale a Cosa nostra, non disgiunta da quella alla massoneria.
Il libro, infine, dissipa anche i dubbi, si spera definitivamente, sull’operazione, la cui riuscita sarebbe dipesa, secondo alcuni, più dalla malattia del ricercato che dalla bravura degli inquirenti.
In realtà è ampiamente dimostrato che quella portata a termine dai Ros è stata un’impresa, preparata da lungo tempo, curata nei minimi dettagli, condotta con mezzi molto sofisticati dell’intelligence più avanzata, con fiuto investigativo eccezionale e con una buona dose di psicologia criminale, che ha permesso di prevedere e interpretare le mosse degli altri con una tempistica decisiva.
Per chi nutrisse ancora perplessità a riguardo, vale lo scambio di battute tra Messina Denaro e de Lucia: “Allora, ascolti, non voglio essere, non voglio fare né il superuomo e nemmeno l’arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate”.
Risposta del magistrato: “Ma intanto l’abbiamo presa”.