Hanno dato prova di eccezionali capacità e sensibilità gli studenti dell’ateneo catanese che hanno ricevuto il Premio Pirandello, in occasione della cerimonia che ha avuto luogo nel Refettorio Piccolo della Biblioteca Ursino Recupero, con la direttrice dott.ssa Rita Carbonaro.
Giunto alla IX edizione, il premio promosso da Ersu, Ente regionale per il diritto allo studio universitario, di Catania, in collaborazione con l’Università di Catania – grazie alla disponibilità del Magnifico Rettore Francesco Priolo - consolida la sua storia, divenendo “un evento atteso di grande spessore e interesse culturale”, commenta il vicepresidente e delegato alla Cultura dell’Ente, prof. Salvo Cannizzaro, motore dell’evento, con il sostegno dei rappresentanti degli studenti in Cda, e con la collaborazione del presidente arch. Salvo Sorbello, il direttore, ing. Salvo Cantarella, il responsabile stampa, nonché ideatore del Premio, dott. Giampiero Panvini, e la dott.ssa Clara Lo Monaco, con il ruolo fondamentale della professoressa Sarah Zappulla Muscarà, ordinario di Letteratura italiana dell’Università di Catania, consulente all’Ersu per la Cultura, presidente della giuria composta dalle professoresse Rosaria Sardo e Gloriana Orlando.
Presentato dalla giornalista Valentina Sciacca, l’evento è stato dedicato nella prima parte alle premiazioni di illustri ospiti del panorama culturale nazionale.
Il giornalista e scrittore Felice Cavallaro - premiato dal prof. Cannizzaro - autore del volume “Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra” e della rappresentazione teatrale “Terra bellissima”, promotore de “La strada degli scrittori”. Un intervento toccante sul dolore delle donne vittime della mafia, e l’importanza della “memoria”, quello del giornalista da sempre impegnato nel raccontare le dinamiche mafiose che attanagliano la nostra Sicilia.
Una vera e propria lezione accademica sui criteri di un’edizione nazionale promossa dal Ministero: il professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Sassari, Aldo Maria Morace, autore di un’innovativa edizione de “I vecchi e i giovani”, premiato dalla prof. Zappulla, ha illuminato su un aspetto dell’editoria poco conosciuto, dall’alto di un’esperienza decennale.
Assente per motivi di salute, il regista Roberto Andò, che ha firmato la regia del film campione di incassi “La Stranezza” (2022), e il volume scritto a quattro mani con Salvatore Ferlita. A ricevere il premio per lui la giornalista, critico cinematografico Ornella Sgroi. La lettura di brani tratti dai lavori dei premiati, è stata affidata alla grande capacità interpretativa dell’attore Agostino Zumbo, presente generosamente a titolo gratuito, a servizio della cultura.
Seconda parte, protagonisti assoluti gli studenti che hanno aderito al bando indetto dall’Ersu, “La più meravigliosa delle arti…” che richiedeva un tema sul cinema, in particolare riflessioni personali su un film a scelta dei candidati. I tre vincitori, su un numero elevatissimo di lavori pervenuti, hanno colpito per maturità e abilità espressiva, come evidenziato dalla giuria.
Ad aggiudicarsi il primo premio, con un tema sul film della Cortellesi, “C’è ancora domani”, la studentessa di Psicologia, Alessandra Nicosia. Incrociando la propria scelta cinematografica con un fatto di attualità che ha scosso dal profondo le coscienze, l’assassinio di Giulia Cecchettin, ha molto colpito la giuria e il pubblico in sala per la maturità di critica e la capacità di immedesimazione e introspezione. Secondo e terzo premio rispettivamente a Gaia Tripi, Dipartimento Cultura e Spettacolo, che ha partecipato con un tema sul fenomeno “Barbie” e a Gianfrancesco Pisa, Giurisprudenza, la cui scelta è ricaduta su “’C’è ancora domani”.
Tre lavori premiati anche per i punti di vista personalissimi, capaci di sondare emozioni e sensazioni fornendo una chiave di lettura inedita. A fare “vibrare” con intensità i testi, ancora una volta la voce di Zumbo. Oltre alla borsa di studio, i premiati hanno ricevuto diversi volumi: un investimento in cultura, secondo gli obiettivi sempre manifestati dall’Ersu di Catania.
Ed ecco i vincitori con i loro scritti
Primo classificato “C'è ancora un domani” di Alessandra Nicosia
C’è ancora domani
Cari Elena, Davide e papà,
anche quassù, la risonanza di C'è ancora domani è arrivata. Io e mamma l'abbiamo guardato tutto d'un fiato, le nuvole come poltrone. Mi sono chiesta come sarebbero andate le cose, se Filippo lo avesse guardato prima di quella notte. Forse la mia anima non sarebbe stata costretta a migrare, e il mio corpo non si sarebbe adagiato sul fondo del lago.
Ci ho immaginati seduti nelle file centrali di un vecchio cinema di Vigonovo, tra le mani due cartoncini di pop corn. Riesco chiaramente a vederlo Filippo, rigido sulla poltrona rossa, il volto rischiarato dalla luce del grande schermo.
Lo vedo trasalire di fronte a una violenza che non crederebbe mai di poter commettere.
Lo vedo scivolare colpevole in qualche parte oscura della sua anima, mentre si riconosce in modi e pensieri che avvelenano la nostra società dall’interno.
Vedo i frammenti del film susseguirsi in un'incalzante sequenza mentre lui mi siede accanto in silenzio. Sento respiri sommessi, i suoi, e quelli delle persone qui intorno. Sembra quasi che parlino, questi respiri: parlano un linguaggio comune e umano, che di fronte alla violenza non ha parole.
Lo vedo, non riesce a mangiare. Lo schermo lo sta trascinando in un mondo che non è poi così distante dal suo. Né i fotogrammi in bianco e nero né un tempo lontano come la guerra possono salvarlo. È costretto a sedere, nudo, di fronte alla verità. È costretto a ingoiarla, la verità.
Nei suoi occhi l'impronta di una consapevolezza: finora è stato la regola, e non l'eccezione.
Ci vedo, finito il film, uscire dalla sala con addosso il peso delle cose che urlano per un cambiamento. Lui mi tiene per mano. Il suo tocco si è liberato di quella presa che somiglia ad un'ossessione, non vuole più gridare al possesso. È gentile, mi accompagna: è il tocco di una persona che cammina accanto a te, e non davanti.
Poi mi sono chiesta come sarebbero andate le cose se invece avessi guardato io sola quel film, prima di quella notte.
Forse avrei potuto prevederlo il sangue nel terreno di Fossò, e il mio corpo non avrebbe dormito sul fondo del lago di Barcis.
Mi vedo al multisala di via Bandiera, una coca cola a tenermi compagnia e forse, un'amica con cui condividere i giorni felici dei miei ventidue anni.
Guardo la protagonista e ci vedo me. Ci vedo anche una mia collega di corso, che non esce con il gruppo universitario da sei settimane: Andrea è molto geloso. Dice sempre che si fida di lei, ma non degli altri.
Ci vedo la signora che abita al piano di sotto. È sposata da anni con un uomo basso e tarchiato e non l'ho mai sentita parlare in sua compagnia. È sempre lui a salutare, lui a esprimere opinioni, lui a tirare in avanti la loro pseudo tranquilla esistenza matrimoniale.
Guardo la protagonista e vedo noi: vedo te e quella incredibile e terrorizzante analogia con i comportamenti di Ivano. Ti riconosco, forse per la prima volta, in quei modi che trovano sempre una giustificazione. E se Ivano era giustificato perché aveva fatto due guerre, a te, Filippo, giustificano le insicurezze, il bisogno di affermazione, l’infelicità.
Riconosco i sintomi di un amore che, dell'amore, non ha capito niente.
Guardo ai tuoi comportamenti con paura. Mi dicono molto di quello che sei. E dicono molto di com'è fatta la cittadina di provincia in cui vivo, e di come sono fatte tutte le altre cittadine di provincia. Di un'atavica equazione: donna uguale inferiore.
Mi sono chiesta molto come sarebbero andate le cose, se tu o io avessimo visto questo film prima di quel dannato 11 novembre.
Il cinema può dire molte cose: e certo potrà parlare alle molte donne, là fuori, che un domani lo hanno ancora. E potrà parlare ai molti uomini che non hanno mai dovuto preoccuparsi di avere un domani.
Cari Elena, Davide e papà,
anche se per me non c’è ancora domani spero che, almeno domani, ci sia anche un solo uomo in meno di cui avere paura.
Con amore,
Giulia
Secondo classificato “Il fenomeno Barbenheimer e il cinema come aggregazione sociale” di Gaia Tripi
Il fenomeno Barbenheimer e il cinema come aggregazione sociale
Negli Stati Uniti, la distribuzione cinematografica di Barbie, film diretto da G. Gerwig, e Oppenheimer, di C. Nolan, è avvenuta in contemporanea, dando vita al fenomeno culturale, il cosiddetto Barbenheimer, che più di ogni altro ha influito sul ritorno massivo nelle sale. La scelta di distribuirli entrambi lo stesso giorno, il 21 di luglio, non è passata inosservata, provocando un dibattito che dalle comunità di fan online si è spostato, in breve tempo, verso il pubblico generalista e le testate giornalistiche. Da una parte il lungometraggio con protagonista la bambola più iconica dei nostri tempi, dall’altra la storia del “distruttore dei mondi”, creatore della bomba atomica. L’opposizione radicale tra le due opere ricalca con evidenza dinamiche già esistenti sui social network e si è facilmente inserita all’interno delle più classiche polarizzazioni digitali. Mesi prima della data d’uscita, le fazioni online avevano già iniziato a formarsi: il Barbenheimer era cominciato.
Nella contemporaneità digitale, schierarsi con un gruppo e definire la propria opinione sembra necessario per creare comunità, pena l’esclusione dalle conversazioni. Rosa o nero? Estetica camp o toni cupi? Queste le due bandiere che hanno definito lo scontro-incontro tra il pubblico; tra chi non vedeva l’ora di potersi immergere nel mondo patinato e umoristico di Barbie e chi, all’opposto, vedeva già nelle atmosfere dei film precedenti di Nolan l’oscurità che avvolge il personaggio ambiguo di J. Robert Oppenheimer.
A suon di meme, gli utenti del web non hanno tardato a condividere il proprio schieramento. L’umorismo non-senso tipico della comunicazione virtuale giocava con la paradossale immagine dell’uomo in giacca e cravatta in fila per andare a vedere il coloratissimo Barbie, mentre inaspettati gruppi queer e glitterati avrebbero riempito le sale per il cupo creatore della bomba atomica. E la partecipazione, nei giorni di proiezione dei due film, si è fatta sempre più sentita, giovando, inaspettatamente, ad entrambe le produzioni, stimolate l’un l’altra proprio da tale sfida. Appariva ormai impensabile poter vedere Barbie senza poi far lo stesso con Oppenheimer e viceversa, spesso consecutivamente (come accadeva, almeno fino agli anni Sessanta, con il “doppio spettacolo”). La stessa regista di Barbie, Greta Gerwig, e Margot Robbie, Barbie in persona, hanno condiviso sui propri account social uno scatto che le ritrae, biglietto alla mano, davanti alla locandina del film di Nolan, cavalcando un trend partito online. Oltre alle star, gruppi di persone di ogni età si sono fatti trasportare dall’euforia, recandosi in sala, - in contrasto con l’ormai preponderante tendenza a guardare i film in casa, sulle piattaforme di streaming -, anche solo per sentirsi parte del fenomeno.
Entrambi i titoli hanno sfruttato abilmente la potenza dei social media, generando un ritorno al cinema basato sulla condivisione virtuale. La propria capacità iconica ha permesso loro di diventare argomento di discussione online e ha trasformato l'esperienza cinematografica in qualcosa di più ampio, coinvolgendo spettatori che, altrimenti, ne avrebbero ignorato il fascino sul grande schermo. Barbie e Oppenheimer hanno portato al cinema un pubblico nuovo, sfruttando le aspettative generate dalla comunicazione sui media e le produzioni online fatte dagli stessi utenti, come gli innumerevoli montaggi foto e video. L’impatto dei due film non si è limitato alle stesse pellicole, ma ha influenzato positivamente il ritorno al cinema come luogo di aggregazione sociale: la forza dei meme ha rafforzato la magia del cinema, dimostrando che, anche nell'era digitale e soprattutto grazie alla capacità dei nuovi media di unire e coinvolgere, le esperienze cinematografiche possono ancora esser identificate come momenti di condivisione, virtuale ma soprattutto umana.
Terzo classificato “La sala dei miracoli” di Francesco Pisa
La sala dei miracoli
E’ la sala dei miracoli, fate attenzione. Nel buio di una sala cinematografica, si consuma il più grande degli spettacoli. I clacson e il rombo dei motori, le voci e persino il vento; tutto si ferma alle porte di un cinema.
E’ una sala modesta, solo un centinaio di anime che aspettano in silenzio e trepidanti una serie di luci su cui sfregare la propria immagine. Il fenomeno è degno di nota ed il buio è la sua musica.
“Ho paura del buio!”, dice un bambino. Cresciamo con un’idea di quasi timore e di rispetto del buio. Ci rende incapaci di vedere, ci rende incapaci di conoscere. E’ l’inizio di una proiezione cinematografica -e non solo-. La nostra immagine si proietta, quasi che lo schermo bianco fosse uno specchio, all’interno di una nuova realtà. Siamo semplici spettatori consapevoli privi di responsabilità, teatranti privi della quotidiana maschera. Ecco la potenza del cinema, dove ogni dramma è un falso e con un po’ di trucco e mimica puoi diventare un altro.
Allora, sfregando l’immagine del nostro io su quelle degli attori, riconosciamo i nostri contorni. Riconoscersi e cercare punti di familiarità è nella natura umana. In questo momento ben distinto, gli autori incapsulano un tema e i registi lo animano legando musiche ed effetti capaci di suscitare in noi ciò che più banalmente sono reazioni chimiche intrinseche all’uomo: le emozioni. Suscitano allora speranza con finali aperti, attraversano il tempo rendendo le scene in bianco e nero oppure ancora riescono a far guardare, dove comunemente ci si perde, scene di violenza legate a musica classica.
Nelle ultime settimane tra giovani e meno giovani un film ha toccato umanamente le corde di ogni donna e di ogni uomo, forse anche complice la triste cronaca italiana. Il film mostra uno spaccato culturale di una società patriarcale passata e presente che fa pesare sullo spettatore un senso di potere maschile voluto – e a tratti dovuto – di tipo coercitivo nella più ampia panoramica del pubblico-istituzionale e del privato-familiare tramite il racconto della quotidianità di una famiglia qualunque, di un marito ed una moglie, di Delia ed Ivano. “Non glie poi menà sempre, che sennò s’abitua! Una, ma forte!”. E’ l’ironico e grave consiglio paterno dato ad Ivano. La regista, Paola Cortellesi, si spinge oltre: tramite semplici e crude scene consente al pubblico femminile e maschile di riconoscersi in una o più dinamiche rappresentate; pianta un seme dando ella stessa un’affermazione importante di speranza, voglia e consapevolezza: “C’è ancora domani”.
Si riaccendono le luci in sala. Il risultato del film proiettato nel buio di una sala è una dimensione di condivisione di emozioni, sensazioni ed esperienze. Uomini e donne, sguardi su sguardi che si riconoscono, che ora si agitano e che ora trovano serenità. Ci sono madri che spiegano alle figlie e ai figli, ci sono ragazzi e ragazze. Alcuni parlano, altri restano in silenzio. Alcuni sono sguardi imbarazzati, altri sono sguardi di speranza, altri ancora di riflessione. Il cinema può essere uno specchio per l’anima. Può mostrare i nostri desideri più profondi o le nostre paure più tormentate. Nella parità del buio fa condividere due sconosciuti strade e istruzioni che solo lui sa mostrare aiutando la costruzione di una nuova coscienza e cultura sociale.
E’ la sala dei miracoli, fai attenzione.