Se la sera del 15 settembre di trent’anni fa, mentre molte famiglie erano incollate al televisore a seguire una partita di coppa internazionale, padre Pino Puglisi non si fosse imbattuto nella coppia omicida formata da Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza.
Se si fosse limitato a fare u parrinu, come tanti altri suoi confratelli, anziché cumannari sul territorio di Brancaccio, opponendo alla legge spietata della faida mafiosa, quella evangelica della misericordia e del perdono.
Se ai giovani del quartiere non avesse dato la speranza di un cambiamento culturale e sociale, non rassegnandosi alla logica opprimente di Cosa nostra, probabilmente ieri egli avrebbe festeggiato il suo ottantaseiesimo compleanno e da una decina d’anni si godrebbe la meritata pensione.
E invece, a tre mesi dal monito lanciato ai mafiosi da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il parroco mite e buono di San Gaetano veniva freddato da un colpo di pistola con silenziatore, sparatogli alla nuca, dunque alle spalle, davanti alla sua abitazione.
La morte del sacerdote creò subito disorientamento tra gli inquirenti, non abituati a ritrovarsi un prete tra le vittime per cui indagare, ma anche nella stessa Chiesa palermitana, dove presto si accese un dibattito tra chi collegava il delitto all’apostolato svolto da 3P a Brancaccio e chi liquidava l’accaduto con un cinico “se l’è cercata!”.
Per fortuna furono i primi ad avere la meglio e a fornire agli investigatori la pista da seguire, dissipando sul nascere le voci infamanti che descrivevano Puglisi come molestatore di donne e bambine.
Poco dopo fu iniziato l’iter della beatificazione, puntando sul riconoscimento di quell’assassinio come martirio.
Il percorso non fu privo di ostacoli, anche perché si andava incontro ad un nuovo tipo di martirio, che aveva come carnefici non i pagani delle origini né gli infedeli dei secoli successivi, ma persone battezzate e verosimilmente praticanti, con una visione, però, fortemente distorta della fede.
Così i l 25 maggio 2013 il Foro Italico di Palermo si riempì di una folla incredibile di fedeli e devoti, convenuti ad assistere alla prima beatificazione di un sacerdote ucciso dalla mafia.
La stessa che cinque anni dopo avrebbe accolto, in quel medesimo luogo, papa Francesco in visita pastorale in Sicilia, per il venticinquesimo anniversario della scomparsa del beato.
Durante l’omelia il Vescovo di Roma ribadì la scomunica ai mafiosi, apertamente pronunciata nella piana di Sibari qualche anno prima: “Non si può credere in Dio e sopraffare il fratello. Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore. Oggi abbiamo bisogno di uomini e di donne di amore, non di uomini e donne di onore; di servizio, non di sopraffazione”.
E più avanti aggiungeva: “Ai mafiosi dico: cambiate, fratelli e sorelle! Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Tu sai, voi sapete, che ‘il sudario non ha tasche’. Voi non potrete portare niente con voi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle! Io dico a voi, mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte”.
Parole di condanna, dunque, chiare, nette, non allusive, ma esplicite e inequivocabili.
Ma anche un invito paterno alla conversione, ad un radicale cambiamento di vita e di mentalità, ad una profonda e convinta inversione di rotta.
L’incidenza che l’impegno di padre Puglisi e, in generale, della Chiesa cattolica ha avuto nell’organizzazione criminale è notevole e ne hanno dato conferma, fra l’altro, alcuni pizzini, scritti da Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano arrestato dai carabinieri lo scorso 16 gennaio.
Pur dichiarandosi personalmente ateo e sostenendo, in ogni caso, l’opportunità di un rapporto diretto con Dio, senza la mediazione dei preti, il padrino esprime lo sconcerto prima nei confronti del parrinu di Brancaccio, incapace di farsi i ... suoi e successivamente verso chi ha deciso la sua beatificazione.
Quest’ultima è definita da lui un atto politico, segno di una involuzione della Chiesa, che anziché insegnare il perdono come una volta, lancia condanne e scomuniche.
Questo conferma quanto le iniziative culturali, gli insegnamenti morali, la promozione umana e l’educazione dei giovani siano temuti da Cosa nostra.
Forse più delle indagini e degli arresti, perché un mafioso in carcere può continuare a esercitare il suo potere attraverso prestanomi e fedelissimi.
Un padrino condannato può essere abbastanza facilmente rimpiazzato da un successore.
Un patrimonio confiscato può essere ricostruito grazie agli affari sporchi, ma estremamente redditizi, che la mafia gestisce.
Ma un mafioso convertito è, per la criminalità organizzata, una sconfitta senza appello, un oltraggio ai principi storici sui quali essa poggia, una minaccia concreta al futuro di Cosa nostra e alla sua prospettiva di sopravvivenza.