Esterno sera, 20:30, Via Etnea.
Le luci natalizie, per nulla austere, illuminano la nostra Nevskij Prospekt e due figure si incrociano rapidamente, altezza Feltrinelli. Indossano un passamontagna per proteggersi dal freddo tagliente e, per un istante, si scambiano un segno rapido con la mano, impercettibile, prima di riprendere il proprio cammino: uno sale, l’altro scende.
Non si conoscono, non fanno parte della stessa pizzeria o dello stesso ristorante, poiché Glovo, JustEat, Deliveroo, hanno solo responsabilità della consegna, non del luogo di partenza. Non hanno un gruppo WhatsApp alla “Rider Glovo”, non hanno un luogo di ritrovo post-lavoro, men che meno sono colleghi; al massimo competono per chi porterà più consegne.
Per questo non sono come due autisti dell’AMT che si incrociano e scambiano il saluto in Via Etnea.
Gli autisti hanno una divisa, hanno la stazione, hanno un sindacato, hanno un gruppo whatsapp dove scherzano, sì, ma dove possono organizzare anche gli scioperi… insomma, hanno la fisicità del lavoro.
I rider hanno la loro bicicletta, il loro zaino, il loro telefono. Finisce lì.
Però qualcosa li lega: quello zaino squadrato sulle loro spalle, il simbolo inconfondibile del lavoro che condividono.
Quello zaino, per loro, non è solo un contenitore: è un marchio, un segno distintivo, un passaporto in una comunità di lavoratori invisibili, accomunati dalla precarietà e da un sistema che premia la velocità ma dimentica la dignità.
Lo zaino, oltre a portare del sushi, porta la carica semantica di una generazione sottopagata.
Lo si vede ovunque: poggiato su un marciapiede in attesa di un ordine, piegato sotto la pioggia o il vento. È un oggetto che, ad oggi, incarna il precariato. Studenti, migranti o persone che non riescono a trovare altra occupazione – costretti a fare i conti con turni estenuanti e paghe da fame per il lavoro che fanno.
L’immagine dei due rider che si salutano, con il solo zaino come minimo comune denominatore, è emblematica. Non importa chi siano, quale sia il loro nome o da dove provengano. Quel saluto, quel gesto minimo, è il riconoscimento di una realtà condivisa: la lotta per arrivare a fine mese in un lavoro che non si ferma mai, nemmeno quando piove a dirotto, con il gelo o con il fuoco. Se il rider è l’emblema della resistenza, c’è un’altra figura che spicca in questa storia: il cliente che, nonostante pioggia, gelo o lunghe attese, non lascia nemmeno una mancia. La miseria non è solo economica, è anche morale.
I rider raccontano spesso di clienti che ordinano cibo costoso senza badare a spese, ma che alla fine non lasciano nemmeno un euro per ringraziare chi ha portato quel pasto a casa loro sotto una tempesta. È il paradosso di un sistema che chiede sempre di più – più consegne, più velocità, più disponibilità – ma che restituisce sempre meno.
Quel saluto, non è solo un gesto di cortesia, è una solidarietà sorda, un modo per dirsi: “tu sei mio collega, tu come me non hai diritti, tu come me rischi la vita sfrecciando tra le auto con una bicicletta”. Perché in quel lavoro c’è una comunità invisibile che non ha luoghi d’incontro né sindacati forti, ma si riconosce nello sforzo condiviso.
L’evento visto non è una cosa rara; con un po’ di spirito di osservazione voi stessi potrete accorgervi che, fermandovi 5 minuti in Via Etnea, una decina di questi ragazzi sfrecceranno dall’alto verso il basso e, quasi tutti, si salutano.
Quel saluto è il loro sindacato.
Tra tutti i buoni propositi di inizio anno ne figura sempre uno: la dieta; questo, quasi sempre a fine gennaio, va a farsi benedire. Allora adempiamone uno o due di gran lunga più semplici: evitiamo di chiamare a domicilio quando piove a dirotto e, se si può, lasciamo una mancia ai ragazzi.
Tocca oggi (se l’editore lo permetterà) rompere la quarta parete che sta tra chi scrive e chi legge.
Si sa, il giornalista è un po’ una carogna, enfatizza la verità, vanitoso, spietato… la sua massima ambizione è passare per paladino della giustizia pur essendo -per sua natura- incoerente.
Però, una certa tenerezza ha mosso a scrivere oggi queste parole poiché, chi le ha scritte, era un porta pizze.