U baccaficu: il nome del piatto ha origine dai beccafichi, uccellini bellissimi e paffuti che abitano i boschi siciliani.
La nostra nobiltà, dilettandosi in signorili battute di caccia, li uccideva e li cucinava farcendoli delle loro stesse viscere e interiora.
Leggende narrano che il piatto fosse gustoso quanto inavvicinabile al popolo in quanto bene di lusso. Pescatori e popolani, invidiosi del pasto, rimodularono con le materie prime che potevano permettersi (ovvero le sarde) il costoso piatto e per imitare il ripieno d'interiora si pensò di utilizzare la mollica di pane, i pinoli, la salvia, etc.
Ma può u baccaficu aiutarci a tradurre la direzione economica degli ultimi 10 anni? Ci proviamo.
Negli ultimi decenni, le grandi multinazionali hanno affinato l'arte di produrre versioni di oggetti, cibo, vestiti e persino esperienze accessibili, dando un illusione al malinconico individuo che si aggira per i negozi (fisici o meno) di vivere nel lusso.
Sebbene possa sembrare una sorta di "democratizzazione del consumo", questo cela implicazioni preoccupanti e, totalmente in controtendenza, la preoccupazione è più sociale che ambientale.
Gli oggetti imitati, che spaziano dalla moda ai dispositivi tecnologici, offrono un'illusoria sensazione di prestigio, ma in realtà alimentano una cultura dell'usa e getta e una percezione distorta di valore del prodotto.
Il principio è chiarissimo: riprodurre i tratti distintivi dei prodotti di lusso (design, estetica minimalista, materiali che appaiono ricercati) riducendo i costi sia delle componenti che della manodopera.
Questo meccanismo permette ai consumatori, trattati come cavie, di sentirsi vicini a uno stile di vita elitario, anche se in modo esclusivamente superficiale.
IL CASO MASSIMO DUTTI
Un esempio lampante è rappresentato dalla moda fast fashion, che si ispira ai marchi italiani di alta gamma.
Brand come Massimo Dutti, che si presentano come simboli di eleganza, nascondono in realtà origini e dinamiche completamente diverse: Massimo Dutti infatti, nonostante il nome dal sapore italiano, è un marchio spagnolo appartenente al gruppo Inditex (Zara, Stradivarius, Pull and Bear, etc.) con produzione spesso delocalizzata in paesi come Cina, India o Bangladesh.
Praticamente una beffa che vale miliardi, basti vedere il fatturato di Inditex e il numero di dipendenti che ha per capire di cosa stiamo parlando: 26 miliardi di euro e 162.450 dipendenti.
Questi capi, che cercano di evocare il minimalismo e la raffinatezza delle maison francesi o italiane, sono prodotti in serie con materiali di bassa qualità e spesso in condizioni di lavoro disumane.
Il risultato è una cultura del consumo impulsivo, in cui il prodotto viene percepito come usa e getta. Il che pare un po' paradossale dato che il consumatore pensa di avere tra le mani un bene - come dire- paralussuoso.
NON SOLO MODA
Il fenomeno non è limitato al settore della moda.
Anche il mercato automobilistico o tecnologico ha adottato strategie per offrire una parvenza di lusso a un pubblico di massa.
Automobili sempre più ambite vengono dotate di schermi touchscreen, luci ambientali soffuse, connessioni internet e sistemi di telecamere; tutta paccottiglia che mira a conferire un’aria di esclusività per un prodotto che costa poco.
Tuttavia, questi accessori spesso non aggiungono alcun valore reale al veicolo, che rimane progettato con componenti economici e poco durevoli; per non parlare dell'incoerenza del veicolo, piegatosi al mercato elettrico e costretto ad aggiungere sempre più roba, trasforma l'auto in un cassonetto pesantissimo, pieno di comfort e per nulla (parola che piace tanto alle multinazionali) ecosostenibile.
Il lusso quindi diventa una sorta di esperienza simulata.
Lo stesso vale per i telefoni, fate una prova voi stessi: girate il telefono dal quale state sicuramente leggendo e contate gli obiettivi.
I produttori rincorrono l'idea di innovazione con caratteristiche come due o più fotocamere e, sebbene questi elementi possano sembrare premium, spesso non portano miglioramenti significativi all’esperienza utente.
Invece, servono principalmente a creare una percezione di lusso tecnologico che giustifica prezzi elevati ma che stanno sempre sotto una soglia di comprabilità per tutti.
La produzione intensiva di beni di bassa qualità comporta un enorme spreco di risorse naturali e un incremento dei rifiuti, poiché questi prodotti hanno una vita molto breve, spesso programmata.
La fast fashion, ad esempio, è responsabile di una grande parte dell’inquinamento globale, con tonnellate di abiti scartati ogni anno e una produzione che utilizza enormi quantità di acqua e sostanze chimiche nocive.
Dal punto di vista sociale, queste dinamiche perpetuano un sistema di sfruttamento nei paesi in via di sviluppo, dove lavoratori sottopagati sono costretti a produrre beni a ritmi da locomotiva.
I consumatori, dal canto loro, vengono spinti a un ciclo infinito di acquisti compulsivi, poiché i prodotti economici si deteriorano rapidamente e devono essere sostituiti.
Paradossalmente persino il vintage (nato come una forma di ecologismo) sembra preso d'assalto da una forma malata di acquisto, tanto che nascono nuovi brand similvintage ma che adottano la stessa pratica di una qualsiasi squallida casa di fast fashion.
Opzioni come Vinted (nata per vendere vestiti che non si utilizzano più) è presa d'assalto da una quantità di rivenditori tale da rendere vana ogni forma di abbattimento delle emissioni della produzione di vestiti nuovi.
Perché imballare un pacco, spedirlo e (nel peggiore dei casi) farne un reso, ha un impatto ambientale.
Per contrastare questo fenomeno, è essenziale promuovere una cultura del consumo consapevole, in cui il valore di un prodotto non sia determinato dalla sua apparenza, ma dalla sua qualità e durabilità.
Chi deve promuoverlo non dev'essere una multinazionale, ma noi.
Perché sembra quasi che comprare esclusivamente prodotti riciclati e green dia al consumatore una sorta di salvacondotto, quando anche questi -fortuna per le multinazionali, sono usa e getta.
La soluzione è una: comprare meno e far durare il prodotto il più possibile.
Ste sarde, alla fine, nascondevano un po' più di sola mollica e qualche pinolo.